Non posso chiudere questa serie di blog sulla DD senza fare un cenno al fenomeno della globalizzazione, il che mi offre l’occasione di illustrare i diversi modi in cui DD e DR rispondono a questo attualissimo e pregnante fenomeno.
1. Che cos’è?
La g. è un fenomeno molto articolato e difficile da definire in modo univoco ed esaustivo. Abitualmente, con questo termine s’intende una complessa concezione, secondo cui in tutto il modo c’è e ci dovrebbe essere un unico sistema di valori (g. culturale), un’unica forma di governo (g. politica), un unico sistema giuridico (g. giuridico), un unico mercato (g. economica). A livello culturale, la g. riduce il ruolo delle tradizioni locali e intensifica gli scambi di idee, di gusti e di costumi a livello planetario, influendo perfino “sugli aspetti intimi e personali della nostra vita” (GIDDENS 2000: 24). A livello politico, la g. indebolisce lo Stato-nazione, dando modo alle rivendicazioni indipendentiste delle minoranze etniche di venire alla luce e di farsi valere. La g., infatti, “non spinge solo verso l’alto ma anche verso il basso, creando nuove pressioni a favore dell’autonomia locale” (GIDDENS 2000: 25). A livello giuridico, come hanno sostenuto Bobbio e Habermas, “la tutela dei diritti dell’uomo non può essere lasciata nelle mani degli Stati nazionali, ma deve essere affidata sempre più a organismi sovranazionali” (ZOLO 2004: 102).
Ma è in campo economico che la g. sprigiona maggiormente tutto il suo carico rivoluzionario. A livello economico, la g. induce le aziende di tutto il mondo ad integrarsi, ad operare e competere a livello planetario. “Per la prima volta nella storia dell’umanità, qualsiasi prodotto può essere ormai fabbricato e venduto ovunque. Nell’economia capitalistica, questo vuol dire che ogni merce e ogni attività produttiva saranno realizzate là dove i costi sono più bassi, mentre i prodotti o servizi finali potranno essere venduti là dove i prezzi e i profitti sono più alti. Minimizzare i costi e massimizzare i ricavi: ecco, nella sostanza, la massimizzazione del profitto, ossia il nucleo del capitalismo” (THUROW 1997: 124). L’eccezionale apertura dei mercati, proprio in un momento in cui il capitalismo regna sovrano, ha posto il fattore economico in primo piano rispetto al principio di forza. Non è che la guerra sia scomparsa, ma ha perso il suo primato. Oggi si preferisce avanzare con le armi dell’economia e della finanza e solo se queste falliscono si ricorre alle armi. “La globalizzazione non mira a conquistare paesi, bensì mercati. L’obiettivo di questo potere moderno non è l’annessione di territori, come ai tempi delle grandi invasioni o delle colonie, ma il controllo delle ricchezze” (RAMONET 2003: 5). Viene così a ribaltarsi un costume millenario, in accordo al quale si ricorre al commercio quando si è stanchi di farsi la guerra. Oggi si ricorre alla guerra quando il mercato si rivela impotente nel perseguimento di certi obiettivi di uno Stato.
La g. è anche un’idea che deriva dalla coscienza che il mondo è uno, che l’umanità è una, e che ci sono interessi comuni a livello universale che richiedono una qualche forma di interazione e integrazione globale, ma anche il superamento dei nazionalismi e degli Stati-nazione. “Dopo più di duecento anni di nazionalismo e di appoggio alla formazione di Stati nazionali si potrebbe pensare che questi valori siano fuori posto” (HELD 2005: 73) e si potrebbe pensare ad un Mondo unito. Sotto questo aspetto, un ruolo pioneristico potrebbe essere svolto dall’UE, che rappresenta già un modello di governo transnazionale, diverso tanto dal federalismo quanto dalle Nazioni Unite, che sono una semplice associazione di Stati-nazione. Secondo Giddens, il modello UE può essere elevato a livello mondiale e consentire la realizzazione di un Mondo unito (2000: 97). In realtà, le cose non sono così semplici, anche perché, a ben vedere, la g. implica un profondo cambiamento di mentalità e la rinuncia alla cultura statuale, cui ciascuno di noi si sente particolarmente legato, l’adozione di una moneta mondiale, di una televisione mondiale, di unità di misura standardizzate e, soprattutto, di una lingua comune, che nemmeno l’UE è stata in grado di conseguire.
L’idea della g. è il prodotto dell’accorciamento dello spazio e del tempo, che ci fa sembrare il mondo più piccolo. “Ecco, proprio questa è l’essenza della globalizzazione: una particolare azione umana, simultaneamente ad altre provenienti da non importa quale luogo, può direttamente estendersi da una parte all’altra del mondo, può raggiungere qualsiasi altra parte del globo, annullando del tutto lo spazio fisico, cioè la distanza, e comprimendo al massimo, quando non azzerando, il tempo occorrente per il compimento dell’azione stessa” (BALDASSARRE 2002: 6). Questo accorciamento dello spazio e del tempo ha importanti ricadute a molti livelli: rende istantanei i flussi e gli investimenti finanziari, favorisce lo sviluppo di reti di produzione internazionale, rende frammentari e flessibili i processi di produzione, pone le esigenze del mercato e gli interessi degli azionisti al di sopra degli Stati nazionali. Anche i valori culturali, morali e religiosi, che in passato hanno potuto coltivarsi all’interno degli Stati, ora devono cedere il passo ai supremi interessi del mercato, creando apprensione e disorientamento, ma anche resistenza, nelle popolazioni locali.
Così intesa, la g. non è un fenomeno nuovo. In realtà, essa affonda le sue radici in tempi lontani, ma, dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, con lo sviluppo dei sistemi di comunicazione, essa ha ricevuto un così forte impulso da imprimere il suo marchio alla epoca, che, a buon diritto, viene chiamata epoca della globalizzazione (OSTERHAMMEL, PETERSON 2005).
2. Le conseguenze
Come uno tsunami, la g. sta cancellando schemi consolidati e sta cambiando il nostro modo di rapportarci col mondo e di condurre le nostre vite, ma senza offrirci in cambio una struttura alternativa cui aggrapparci. Ad esempio, la g. ha finito per erodere i poteri dello Stato, senza tuttavia trasferirli ad un nuovo organismo politico. Adesso non è più lo Stato che controlla l’economia, ma è l’economia che controlla lo Stato e lo giudica classificandolo in una fascia di rating, da cui poi dipende il valore dei titoli di debito emessi dal Tesoro. In questo modo lo Stato “ha perduto la sua sovranità economica” (CASSESE 2002: 38). Per conseguenza della g., ci sentiamo portati a considerare il mondo come un’entità unica e a giudicare gli Stati-nazione come delle strutture in declino. “All’inizio del ventunesimo secolo ci sono buone ragioni per credere che l’ordine internazionale tradizionale degli Stati non possa essere restaurato e che le spinte profonde alla globalizzazione non possano verosimilmente essere arrestate” (HELD 2005: 202). Secondo Martha Nussbaum, “ci piaccia o no, viviamo in un mondo in cui i destini delle nazioni sono strettamente legati rispetto ai beni primari e alla stessa sopravvivenza” (1995: 26). Dobbiamo, dunque, abituarci, aggiunge Castronovo, “all’idea che il nostro destino è inscindibile da quello degli altri, che un filo rosso rende interdipendenti le varie parti del pianeta” (2001: 147). Tutti abbiamo bisogno di tutti, e il futuro è nella globalizzazione. Ci muoviamo verso un mondo unito e avvertiamo l’esigenza di un super-governo sovranazionale e mondiale. “Soltanto lo sviluppo di un’unica complessa struttura di autorità politica, e l’armonizzazione della democrazia nazionale con l’integrazione internazionale possono offrire qualche possibilità realistica di limitare la violenza su larga scala e di sostenere lo sviluppo sociale pacifico” (SHAW 2004: 275). Vacillano anche i tradizionali valori di riferimento delle comunità locali, che svaporano e si dissolvono in quella intricatissima rete culturale, che opera a livello sovranazionale. Alla fine, non abbiamo né uno Stato mondiale, né delle solide culture locali, ma ci muoviamo in un mondo privo di stabili punti di riferimento.
3. Le posizioni degli studiosi
Questi cambiamenti trovano resistenze a tutti i livelli: non solo nelle masse, che si sentono legate alle consuetudini nazionali e provano avversione per ogni elemento di novità, ma anche per le élite locali, che appaiono poco disposte a rinunciare ad una parte del loro tradizionale potere. Pertanto, non deve destare meraviglia il fatto che sulla g. le opinioni degli studiosi siano molto diversificate, per non dire divergenti.
Oggi, non c’è consenso sull’opportunità della g., anche perché in realtà mancano indicazioni chiare e sufficienti per poter esprimere un giudizio univoco e “non è semplice indicare un unico cammino che combini efficacemente globalizzazione e sviluppo” (BONAGLIA e GOLDSTEIN 20082: 115). Interessando molti aspetti della geografia umana, il fenomeno è fatto oggetto d’indagine da parte di studiosi appartenenti a molteplici discipline, tra le quali un posto rilevante è occupato dalla sociologia. Ebbene, nemmeno la sociologia appare in grado di pronunciare giudizi definitivi sulla g.. “La complessità del fenomeno obbliga la sociologia a ulteriori analisi e ricerche per chiarire le dimensioni sociali, economiche, politiche, culturali del fenomeno e, soprattutto, la loro interazione, fattore decisivo per comprenderne le mutevoli dinamiche” (GUOLO 2003: 130). Il fatto che manchino elementi sufficienti per esprimere giudizi definitivi non impedisce ai singoli studiosi di schierarsi da una parte o dall’altra e di dividersi in due fronti opposti: alcuni vedono nella g. una panacea, altri la fonte di ogni male.
4. I globalisti
I globalisti vedono nella g. una necessità, oltre che un’esigenza ineludibile. Secondo Amartya Sen, per esempio, rifiutare la g. sarebbe “una decisione piuttosto insensata dal punto di vista pratico, considerata l’entità dei benefici che il mondo intero potrebbe trarre dal processo” (SEN 2002: 16). Anche secondo Antonio Baldassarre, almeno sotto il profilo economico generale, il giudizio sulla g. “è inevitabilmente assai positivo” (2002: 328). Uno dei più entusiasti globalisti è certamente Alessandro Cecchi Paone, il quale sostiene che “la globalizzazione non è una croce da portare e, meno che mai una minaccia da sventare. Si tratta semmai di una splendida occasione per incrementare la produzione di ricchezza, la diffusione del benessere e la libertà, soprattutto nell’interesse di chi vive nei paesi più poveri, in quella parte di mondo in via di sviluppo in cui donne e uomini a malapena sopravvivono, quando sopravvivono, afflitti da povertà, fame, ignoranza, privazione dei diritti civili” (2002: 9-10). Per Keinichi Ohmae, “Gli stati-nazione sono stati creati per corrispondere alle esigenze di un periodo storico ormai terminato” (1998: 105). Svuotati ormai del loro ruolo originario, gli Stati-nazione sembrano destinati a lasciare il posto agli Stati-regione, che non hanno confini precisi e sono definiti da fattori di natura economica. Per i globalisti, nessuno Stato può assicurare condizioni di vita ottimali ai propri cittadini sulla base di un’autosufficienza autarchica anche perché, come nota Schneider, “nessuna società è così esattamente equilibrata in relazione al suo habitat da soddisfare tutte le sue esigenze, né ogni famiglia è in grado di esaudire i bisogni dei suoi membri” (1985: 245). In estrema sintesi, la logica globalista prevede la fine della sovranità degli Stati-nazione e l’inizio dell’era del mercato globale affrancato dal controllo politico, dove le merci costeranno meno, i paesi più poveri, quelli che hanno un più basso costo della mano d’opera, avranno le maggiori opportunità di lavoro e miglioreranno il proprio tenore di vita, la ricchezza a livello mondiale aumenterà, si diffonderanno nel mondo le imprese multinazionali e la finanziarizzazione dell’economia, si assisterà ad un’apertura senza limiti dei mercati mondiali. È il vecchio sogno liberista.
5. Gli antiglobalisti
Da parte loro, gli antiglobalisti tendono a mettere in maggior risalto i possibili rischi della g., che attengono soprattutto alle libertà personali, all’ambiente, all’economia. Per la verità, gli oppositori della g. sono una minoranza e la loro posizione probabilmente risulterà perdente, anche se merita profondo rispetto. Antiglobalista è Naomi Klein, che, nel suo libro di grande successo, No Logo, racconta la ribellione contro il mondo dei marchi (2007). Antiglobalista è anche Giorgio Bocca: “Più il globalismo economico aumenta e più le solidarietà umane si riducono a ipocrisie, più le comunicazioni rendono piccolo il mondo e più le disuguaglianze fra i continenti crescono” (2001: 37). Un’altra antiglobalista è Susan George: “ la globalizzazione ha inesorabilmente trasferito ricchezza dai poveri ai ricchi. Ha incrementato le disuguaglianze sia all’interno delle nazioni sia tra le stesse. Ha arricchito i capitalisti a discapito dei lavoratori. Ha creato assai più perdenti che vincitori” (in AA.VV. 2004). Tra gli antiglobalisti vorrei annoverare anche Danilo Zolo, benché egli dichiari di collocarsi in una situazione che si pone “in un punto intermedio tra quella degli apologeti e quella dei critici radicali della globalizzazione” (2004: 135). Secondo Zolo, infatti, “la globalizzazione economica oggi porta con sé, oltre a un aumento assoluto della povertà in talune aree continentali, fenomeni generali come la crescente divaricazione fra una ristretta minoranza di paesi ricchi e potenti e una grande maggioranza di paesi poveri e deboli, l’aumento della disoccupazione in tutti i paesi, inclusi quelli industrializzati, e una crescita della produttività costantemente minacciata dalle turbolenze dei mercati finanziari” (2004: 45).
6. La via intermedia di Stiglitz
Il fatto è che, indipendentemente da come la pensino gli studiosi, la g. è già una realtà incontestabile, almeno sotto il profilo della comunicazione e degli scambi, ed “ha le potenzialità per recare enormi vantaggi sia nei paesi in via di sviluppo sia in quelli industrializzati” (STIGLITZ 2006: 4). Il problema semmai è come gestirla nel migliore dei modi. Tale è la posizione di Joseph E. Stiglitz. “Di per sé, la globalizzazione non è né buona né cattiva” (STIGLITZ 2002: 19). Dipende da come viene gestita. Il fatto è che, almeno secondo Stiglitz, la g. finora è stata gestita male. Oggi i principali protagonisti della g. sono alcuni organismi internazionali come l’FMI, la Banca mondiale e il WTO, la cui funzione dovrebbe essere quella di favorire fra i paesi l’integrazione fra i paesi e i popoli del mondo attraverso una riduzione delle distanza culturali e delle differenze economiche. In realtà, osserva Stiglitz, questi organismi, in particolare l’FMI, hanno fallito nella propria missione (STIGLITZ 2002: 13), perché non hanno coinvolto in modo imparziale ed equo tutti i cittadini e tutti i paesi del mondo, ma hanno perseguito una logica che premia i paesi più potenti. Secondo Stiglitz, è giunto il momento di riformare questi organismi internazionali. “La globalizzazione può essere corretta e quando ciò avviene, quando cioè viene gestita in modo equo e giusto, dando voce a tutti i paesi coinvolti nelle politiche applicate, è possibile che aiuti a creare una nuova economia globale in cui la crescita non sarà soltanto più sostenibile, ma anche più equamente distribuita” (STIGLITZ 2002: 20). Più in particolare, bisognerà “rendere la globalizzazione più equa e più efficace nel migliorare il tenore di vita delle popolazioni, e in particolare dei poveri” (STIGLITZ 2002: 250). Secondo Stiglitz, se ci muoviamo in un certo modo, “possiamo fare in modo che la globalizzazione funzioni, non solo per i ricchi e potenti, ma per tutti, anche coloro che vivono nei paesi più poveri” (2006: 335).
7. Come si governa la globalizzazione?
Il problema della g. è quello di tradurre la nuova cultura in un adeguato sistema sociale mondiale. E non è un problema di poco conto, se si considera le notevoli distanze economiche e culturali che separano le nazioni e gli ostacoli che derivano dai nazionalismi e dagli egoismi dei gruppi più fortunati. Cosmopolitismo, notano Ulrich Beck e Edgar Grande, vuol dire riconoscere l’alterità, “percepire gli altri come diversi e uguali” (2006: 28). E sta proprio qui il problema: saranno in grado le nazioni di riconoscersi diverse e uguali?
In teoria, un mondo globale richiederebbe un governo o una governance altrettanto globale, e questo sembra abbastanza scontato. Quello che non è chiaro è come tradurre in pratica l’idea di un mondo unito. Già Kant e, dopo di lui, Kelsen e Bobbio, hanno suggerito la necessità di realizzare una confederazione di stati repubblicani, come unico modo per evitare la guerra e vivere in pace. Molti studiosi contemporanei, i cosiddetti «trasformazionalisti», come D. Held, A. Giddens, J. Rosenau, A.G. McGrew, J. Habermas, L. Ferrajoli, D. Archibugi e D. J. Elazar, credono che gli Stati nazionali si dovranno adattare alle necessità del mercato globale e consentire la realizzazione di una qualche forma di «democrazia cosmopolita» o di federazione mondiale (MALANDRINO 2001: 282-3). Secondo i fautori della “democrazia cosmopolita”, non può esserci democrazia locale senza democrazia mondiale. “La democrazia nazionale e la democrazia globale sono due facce della stessa medaglia, e senza il conseguimento di entrambe il viaggio verso la democrazia rischia di interrompersi tragicamente” (ARCHIBUGI, BEETHAM, 1998: 86). Insomma, la g. sarà un bene solo se saprà progettare una rinnovata democrazia a livello globale.
8. Fine degli Stati-nazione e glocalismo?
Il mondo è già globalizzato e ha già una sua governance, ma non ha un governo globalista, è globalizzato, ma al tempo stesso è anche frammentato in un gran numero di stati-nazione, è uno, ma non ha un governo unitario. “Possediamo un sistema di governance globale, ma siamo privi di un governo globale” (STIGLITZ 2001: 5). Insomma, come osserva Stiglitz, dobbiamo prendere atto che “la globalizzazione economica si è sviluppata più rapidamente di quella politica” (2006: 21). Questo è un problema aperto. Il fatto è che non è chiaro chi potrebbe assumere il governo del mondo. Al momento, i candidati più accreditati sono i soggetti sovranazionali o transazionali già esistenti, come le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale, il G8, l’OCSE, l’Alleanza atlantica, ed è da essi che si dovrà partire in un modo o nell’altro.
In discussione c’è lo Stato-nazione e il suo futuro. “Una delle pietre angolari della sovranità westfaliana, e cioè il fatto che gli stati godano dell’autorità ultima su tutti gli oggetti e i soggetti compresi nei rispettivi territori, è stata delegittimata dal diritto internazionale” (BENHABIB 2006: 10). Sembra che lo Stato non sia più in grado di rispondere alla crescente domanda di localismo e di mondialismo. “Lo Stato è ormai troppo grande per le cose piccole e troppo piccolo per le cose grandi” (FERRAJOLI 1997: 49), ed è per questo che esso appare avviato al tramonto. Insomma, bisogna prendere atto che gli Stati nazionali “non sono più le unità primarie per risolvere i problemi nazionali” (BECK, GRANDE 2006: 278).
Ma quale sarà il destino degli Stati-nazione? È questo l’interrogativo più preoccupato. Che fine faranno i potenti Stati-nazione e le classi dominanti che li incarnano? In altri termini, come si distribuirà il nuovo potere? Chi ci guadagnerà, chi ci perderà? Insomma, il Mondo unito è compatibile con gli Stati-nazione o implica la loro scomparsa? L’interrogativo è più angosciante di quanto si creda, ma non per la povera gente, la cui esistenza prevedibilmente non subirà sostanziali cambiamenti, quanto piuttosto per i potenti. Le previsioni più attendibili annunciano o un ridimensionamento dello Stato nazionale o la sua scomparsa totale e definitiva, e, allo stesso tempo, annunciano un’ascesa del localismo: “la dimensione locale e la dimensione globale prevalgono su quella nazionale” (ZOLO 2004: 73). Alla fine, dovrebbero restare sul campo due sole forze contrastanti, una delle quali tenderà ad ancorare gli uomini a livello locale (patriottismo), l’altra a livello planetario (cosmopolitismo). Per indicare questo fenomeno qualcuno ha coniato il termine «glocalismo», che rappresenta la sintesi dei termini «globalizzazione» e «localizzazione».
La g. è una sorta di immenso “non-luogo”, per usare una felice espressione di Marc Augè (1993: 36), dove le persone si muovono e si incrociano, più o meno velocemente, ma senza interagire e senza conoscersi. Il localismo invece si riferisce alla sede in cui la persona lavora, si sposa, manda i figli a scuola e svolge un ruolo riconosciuto dagli altri. La g. risponde alle esigenze della modernità, alla contrazione degli spazi e dei tempi, alla coscienza che il mondo è uno. Il localismo risponde invece ai bisogni psicologici della persona, che sono tarati, sin dall’affermazione del Sapiens, su una dimensione «locale».
Glocalismo significa prendere atto che “la «globalizzazione» è un processo non lineare, ma dialettico, nel quale il globale e il locale non esistono come polarità culturali separate, bensì come principi che si integrano e si implicano reciprocamente” (BECK 2003: 189). Glocalismo significa anche che non c’è solo un mondo e nient’altro, ma c’è un mondo e le persone che vi abitano, ciascuna delle quali vive in una comunità locale, da cui non vuole prescindere. “Non si può pensare la globalizzazione senza riferirsi a situazioni e luoghi specifici” (BECK 2003: 197). Il glocalismo è il capolinea, la meta finale, ove ci hanno condotto le riflessioni sulla globalizzazione. Esso ci suggerisce che dovremmo abituarci a fare a meno degli Stati-nazione e a concepire la politica a due soli livelli: il mondo e le singole realtà locali. Quello che può risultare sconvolgente di questa conclusione, che oggi appare ineludibile, è il dover sacrificare quegli Stati-nazione che, da qualche secolo, sono entrati nella storia e ai quali ci siamo abituati. Ed ecco perché sul fenomeno della g. si è andato sviluppato un grande dibattito, in cui sono impegnati illustri pensatori, che si presentano divisi in due fronti opposti: il fronte dei cosmopoliti e quello dei patrioti.
9. Cosmopoliti e patrioti
Cosmopolitismo è un termine di derivazione greca, che significa sentirsi cittadini del mondo, rinunciando ad ogni pretesa di superiorità preconcetta, individuale o di gruppo e che implica l’abbattimento di ogni barriera politica (e quindi il superamento dei limiti territoriali di una città o di uno stato), un atteggiamento pacifista (che senso ha fare guerre?), la relativizzazione dei valori e l’esaltazione dell’individuo come centro del mondo. Il cosmopolitismo è una conseguenza quasi obbligata dell’atteggiamento individualista, tanto da poter affermare che l’individualismo inclina al cosmopolitismo. I princìpi del cosmopolitismo si affermano nell’antica Grecia, e precisamente col pensiero sofista, per divenire, successivamente, un caposaldo della filosofia stoica e del pensiero illuminista. Declinano tra l’Ottocento e il Novecento di pari passo con l’affermazione dell’idea di nazione e dei nazionalismi (Mori 1992).
Cosmopoliti e patrioti hanno qualcosa in comune, ma anche sensibili differenze. Essi concordano sui principi della democrazia, ma hanno una diversa concezione del mondo e della patria: “i primi negano che l’appartenenza alla nazione abbia un valore morale; i secondi ribattono che senza nazione non è possibile l’esercizio della cittadinanza democratica” (VIROLI 1995a: 9); i primi rivolgono la loro attenzione verso il mondo intero, i secondi, pur senza negare importanza alla dimensione planetaria, ritengono che ogni cittadino debba limitarsi ad operare all’interno della propria patria. “Noi cosmopoliti – scrive Anthony Appiah – possiamo essere patrioti, amare la nostra patria (non gli Stati dove siamo nati, ma quelli in cui viviamo); la nostra fedeltà nei confronti del genere umano – un’unità tanto vasta e tanto astratta – non ci priva della capacità di avere a cuore vite più vicine a noi; il concetto di cittadinanza globale può avere un significato reale e pratico” (1995: 29-30). Secondo Appiah, insomma, si può essere cosmopoliti e nello stesso tempo patrioti. Fra i due modi di essere non ci sarebbe, dunque, incompatibilità. E, in effetti, i cosmopoliti non stigmatizzano il patriottismo in sé, ma solo i suoi eccessi, che lo rendono “molto vicino allo sciovinismo” (NUSSBAUM 1995: 28) cioè al nazionalismo più esclusivo e fanatico.
Pur condividendo in linea di principio i valori del cosmopolitismo, i patrioti replicano affermando che in realtà non esiste uno Stato-mondo cui appartenere, allo stesso modo in cui esiste lo Stato-nazione. “Non sapevo neppure che vi fosse un mondo tale per cui uno possa esserne cittadino” (1995: 40), scrive Michael Walzer. E Amy Gutmann aggiunge: “Possiamo essere veramente cittadini del mondo soltanto se esiste una collettività politica mondiale. Per quanto ne sappiamo attualmente, una collettività politica mondiale potrebbe esistere soltanto sotto forma di tirannide” (1995: 36). Secondo Massimo Rosati, possiamo “guardare al patriottismo come ad una virtù politica ancora indispensabile alle democrazie moderne” (2000: 17), purché non si pretenda di mettere al primo posto lo Stato a detrimento dell’individuo. “Il punto di partenza – afferma Rosati – è dato dall’individuo, e la società e le sue istituzioni politiche vengono giudicate giuste o ingiuste sulla base della loro capacità di offrire all’individuo le condizioni e i mezzi per perseguire liberamente i propri interessi e il proprio autonomo progetto di vita” (2000: 15-6). Secondo i patrioti, dunque, non c’è modo migliore di essere cosmopoliti che quello di impegnarsi all’interno della propria nazione e farla progredire.
Se guardiamo bene, noteremo che lo scontro fra cosmopoliti e patrioti è solo apparente, essendo legato ad un fatto equivoco, per non dire inesistente, che è quello di far coincidere la patria con lo Stato-nazione. La verità è che la patria, il più delle volte, non corrisponde allo Stato, oggi come ieri. La patria di ciascuno di noi è il luogo delle nostre relazioni sociali e dove ci troviamo bene, è il luogo dove viviamo, lavoriamo e mandiamo i nostri figli a scuola, e questo luogo è, di norma, non più grande della realtà municipale. Sì, la nostra patria è il nostro comune di residenza, quella che per gli antichi greci era la polis. Ebbene, questa patria, la vera patria, è perfettamente compatibile con lo Stato-mondo. Detto in estrema sintesi, la g. implica un solo cambiamento fondamentale, che tuttavia è assai importante e gravido di conseguenze (positive per alcuni, negative per altri): quello di sostituire allo Stato-nazione lo Stato-mondo. Globalizzare significa realizzare un Mondo unito, con tutto ciò che ne consegue (una lingua mondiale, una moneta mondiale, un sistema informativo mondiale, una politica mondiale), che fa il paio con una miriade di realtà municipali, le cosiddette patrie.
10. Ostacoli al Mondo Unito
Tuttavia, la prospettiva di un Mondo unito sembra al momento lontana. Perché? Cosa si frappone alla realizzazione di quest’idea? Il principale ostacolo all’attuazione di un Mondo unito è sicuramente costituito dalle grandi potenze. Ve lo immaginate un parlamento mondiale dove i rappresentanti degli Usa siedano accanto a quelli dei paesi dell’America Latina, o a quelli dello Zimbabwe o del Libano, in condizioni di parità? Nessuna grande potenza è attratta dall’idea di dover rinunciare ai vantaggi acquisiti in secoli di storia e abbassarsi al livello degli Stati più poveri, di quegli Stati su cui oggi essi esercitano un facile controllo. La Francia come il Camerun, La Gran Bretagna come il Bangladesh, La Germania come la Somalia, Il Canada come la Bolivia, La Russia come l’Azerbaigian, La Turchia come il Kurdistan, La Cina come il Tibet, Israele come la Giordania, l’Italia come l’Albania? Semplicemente impensabile! Ovviamente, più un paese si trova in alto nella piramide mondiale, più ha da perdere e più opporrà resistenza all’idea di un Mondo unito. Gli Usa, che si trovano al vertice, sono quelli che rischiano di più e, conseguentemente, sono quelli che hanno maggior motivo di opporsi a quell’idea, ma sono anche quelli su cui gravano le maggiori responsabilità.
Il futuro del processo di g. dipende molto dalla politica estera degli Usa, ossia del ruolo che questa superpotenza intenderà interpretare nel panorama internazionale nei prossimi anni. Gli Usa debbono scegliere fra due opzioni estreme oppure una fra le tante possibili opzioni intermedie. La prima opzione strema è il proprio potenziamento militare, la realizzazione dello scudo spaziale e l’attuazione di un progetto egemonico tale da poter dominare la terra. Questa però è una strada pericolosa e infida, almeno se dobbiamo giudicare da quanto ci insegna la storia. “Nessun regime – osserva Soros – può sopravvivere esclusivamente grazie alla propria potenza militare, e il mondo non può di certo essere governato in base al principio della supremazia militare” (2002: 156). Finora gli Usa sono sembrati orientati in questa direzione, e questo ha fatto sì che essi si ponessero come “il maggiore ostacolo alla collaborazione internazionale” (SOROS 2002: 148). La seconda opzione è l’elevazione di tutti i paesi del mondo e la creazione di un nuovo ordine internazionale più omogeneo e più giusto. Per molti aspetti questa opzione sembra la migliore, anche se presuppone l’abbandono delle mire egemoniche degli Usa. In compenso, gli Usa potrebbero accontentarsi di una leadership morale e della soddisfazione di aver contribuito a creare un mondo migliore. Se scelgono questa via, “Gli Stati Uniti devono guidare la lotta contro la povertà, l’ignoranza e la repressione con la stessa premura, la stessa determinazione e lo stesso ammontare di risorse impegnati nella guerra al terrorismo” (SOROS 2002: 159).
Dopo l’implosione del comunismo (1989) “il mondo è progressivamente passato da un sistema bipolare, fondato sulla competizione Est-Ovest, a un sistema unipolare, incentrato sulla potenza americana” (GUTTRY, PAGANI 2005: 108). Ma a questa egemonia non è corrisposto “alcun processo maggiore di rinnovamento delle istituzioni internazionali esistenti o di creazione di nuove” (GUTTRY, PAGANI 2005: 183). Stiglitz (2001) parla di «mondo imperfetto», dove, al posto del governo globale, c’è il governo improprio degli Stati Uniti, che lo studioso chiama ironicamente il G1. Gli Stati Uniti sono la principale potenza economica e militare del mondo. “Con circa 400 miliardi di dollari di bilancio annuale, le spese americane per la difesa sono grosso modo pari a quelle consolidate di tutto il resto del pianeta” (GUTTRY, PAGANI 2005: 107). Un Mondo unito sotto l’egemonia del G1 non sarebbe gradito alle altre grandi potenze, Cina e Russia in testa. S’impone dunque la ricerca di una valida alternativa. Ma quale? Stiglitz ritiene che tanto il liberismo quanto il socialismo puri presentano limiti tali da renderli improponibili e perciò indica una Terza via, da costruire all’insegna della maggior democrazia, della maggiore informazione e della maggiore trasparenza. Ma quale può essere questa Terza via? Qui gli studiosi si sbizzarriscono. Beck, per esempio indica “sei prospettive” (1999: 112) e qualcosa di analogo fanno altri studiosi. Non è questa la sede per dar conto delle opinioni di tutti gli autori. Mi limito, pertanto, ad illustrare brevemente i possibili scenari previsti da Antonio Baldassarre.
Lo scenario teoricamente migliore sarebbe quello di un “governo democratico del mondo”, che cancelli gli Stati e faccia di ogni persona un cittadino del mondo. Baldassarre liquida questa opzione come praticamente impossibile e osserva che “tale modello ha una possibilità di realizzazione a livello mondiale che è pari allo zero” (2002: 310). Scartata questa opzione, Baldassarre passa a descrivere un secondo scenario, che prevede la coesistenza di un governo centrale con gli Stati nazionali, che parteciperebbero in condizione paritarie. Anche questo modello però viene ritenuto altamente improbabile, per le ragioni menzionate sopra, perché è impensabile cioè che le nazioni più potenti consentano di azzerare il loro vantaggio nei confronti delle altre. “Per quanto possa apparire ragionevole dal punto di vista dell’interesse generale, un’ipotesi del genere non ha precedenti nella storia umana e, probabilmente, neppure un futuro” (BALDASSARRE 2002: 310). Il terzo scenario prevede la costituzione di una sorta di «direttorio globale» alimentato dalle nazioni più importanti dell’Occidente, per esempio il G8, che avrebbe il compito di fare da guida alle altre nazioni e realizzare una democratizzazione del mondo. Questa soluzione però, pur avendo il pregio di essere la più probabile, ha il difetto di non essere democratica. “Si tratterebbe [infatti] di uno strano «giacobinismo alla rovescia», dove gli aristocratici del mondo esigono la rappresentatività totalitaria e la guida politica degli uomini della Terra, dell’umanità intera” (BALDASSARRE 2002: 315). Per di più, va considerato il fatto che, all’interno del G8, gli Stati Uniti potrebbero continuare ad esercitare la loro indiscussa egemonia, rischiando così di istituzionalizzare “la disuguaglianza fra gli Stati” (BALDASSARRE 2002: 323) e di realizzare il «governo del più forte», che è l’esatto contrario di quanto prescrive la democrazia. In ogni caso, indipendentemente cioè dall’opzione prescelta, bisogna ricordare che, al momento, “gli Stati Uniti rimangono il deus ex macchina di qualsiasi cambiamento” (GUTTRY, PAGANI 2005: 187). Concretamente, dunque, un Mondo Unito si potrebbe realizzare a condizione di rinunciare alla democrazia, e questa sembra davvero una prospettiva inquietante.
Dopo aver illustrato il fenomeno della g., la sua ineluttabilità, le diverse posizioni degli studiosi e le prospettive, passiamo adesso ad illustrare le posizioni in merito della DD e della DR.
11. La globalizzazione DD
Diciamo subito che DD e Cosmopolitismo condividono gli stessi principi: la rinuncia ad ogni pretesa di superiorità preconcetta, fra le persone, l’abbattimento di ogni barriera politica (e quindi il superamento dei limiti territoriali di una città o di uno Stato), un atteggiamento pacifista (che senso ha fare guerre se il mondo è uno?), la relativizzazione dei valori e l’esaltazione dell’individuo come centro del mondo (il cosmopolitismo è una conseguenza quasi obbligata dell’individualismo). Benché nella realtà questi principi non sono stati mai applicati, oggi essi stanno riemergendo e si accompagnano all’”idea che gli esseri umani sono fondamentalmente uguali, e che è loro dovuto un identico trattamento politico” (HELD 2005: 215), indipendentemente dal paese in cui vivono. Tanto nell’ottica del cosmopolitismo che in quella DD, “le unità fondamentali di rilevanza morale sono gli individui, non gli Stati o altre forme particolari di associazione umana” (HELD 2005: 217). Ne consegue che Cosmopolitismo e DD sono come fratello e sorella, o come marito e moglie, e costituiscono una coppia perfetta.
La DD non teme il rischio di una crescente omologazione della domanda di beni, di una standardizzazione degli usi e costumi, di un appiattimento culturale, di una crisi dello Stato-nazione, di una delocalizzazione del lavoro, di un’iniqua distribuzione della ricchezza, di un incremento del commercio internazionale e dei consumi. Essa, infatti, dispone di fattori correttivi (Diritto al minimo, Patrimonio dei cervelli) tanto potenti da scongiurare il vero pericolo della g., che non risiede nella g. in sé, ma nei suoi eccessi. In altri termini, i valori della DD hanno la presunzione di attenuare i possibili difetti della g., lasciando inalterati i vantaggi.
Alla fine, mi sento di affermare che la DD è la migliore interprete del glocalismo, ossia la migliore risposta possibile alla crescente domanda di globalizzazione nel rispetto della persona che vive nella propria comunità. L’ordine cosmopolita preconizzato dalla DD prevede che “i particolarismi nazionali si dissolveranno in una civiltà mondiale comprensiva e varia, all’insegna della democrazia politica e del riconoscimento dei diritti individuali e della libertà individuale” (BECK 2003: 219).
12. La globalizzazione DR
Di fronte ad una g. imperante, la politica DR si trova impreparata e incapace di offrire soluzioni adeguate. In pratica, ci troviamo davanti ad un bivio: o i paesi ricchi assumono il governo del mondo, instaurando in tal modo un governo aristocratico e sacrificando la democrazia, oppure si punta su un sistema democratico pluralista, ma in questo caso i paesi poveri dovranno essere portati al livello di quelli ricchi. Tertium non datur, ossia non ci possiamo permettere di non decidere. Se non facciamo nulla, infatti, le cose continuerebbero ad andar male, perché “la globalizzazione, lasciata a se stessa, si rivela a lungo andare distruttiva della democrazia liberale e, comunque, pericolosa per la stessa” (BALDASSARRE 2002: 370). Il problema è strutturale e la sua soluzione passa attraverso cambiamenti strutturali, che non sono facili da accettare, specie per i paesi attualmente più avanzati. Prendiamo il caso dello Stato-nazione. La DR è nata e si è sviluppata all’interno degli Stati-nazione, di cui è parte integrante. È dunque naturale che essa sia intrinsecamente incapace di portare a compimento un fenomeno che, di per sé, implica lo smantellamento dello Stato-nazione. Realizzando un Mondo unito, la DR non decreterebbe solo la fine dello Stato-nazione, ma anche la fine di se stessa. Ma, poiché la g. costituisce un processo incontenibile, una realtà che ormai esiste di fatto e che non può essere ignorata, la DR, non volendo suicidarsi, altro non può fare che tentare di piegarla ai propri valori. In entrambi i casi, essa finisce per creare un mostro, generando un sistema internazionale altamente iniquo, che favorisce i paesi più ricchi e deprime quelli più poveri, e accentuando l’aspetto duale del mondo.
La DR interpreta la g. attraverso organismi d’ispirazione capitalistica, come il WTO (World Trade Organization), o Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), un’istituzione internazionale (a fine 2001 ne facevano parte 144 Stati), nata nel 1995 in sostituzione del GATT, con sede a Ginevra. Il WTO tende verso la liberalizzazione e la globalizzazione del commercio, l’abbattimento delle barriere doganali e la realizzazione di un mercato unico mondiale, ma, non tende ad eliminare gli Stati-nazione e nemmeno a produrre giustizia sociale. “Il commercio internazionale e il mercato finanziario globale riescono a generare ricchezza, ma non possono curarsi degli altri bisogni sociali, come la salvaguardia della pace, l’attenuazione della povertà, la tutela dell’ambiente, delle condizioni di lavoro e dei diritti umani” (SOROS 2002: 25). Perciò, secondo i suoi critici, esso non è in grado di affrontare i grandi problemi sociali e ambientali, anzi rischia di aggravarli contribuendo a consolidare la realtà di un mondo ingiusto e «duale» in cui il 20% della popolazione mondiale controlla e consuma l’86% delle risorse del pianeta (WALLACH, SFORZA 2001: 17).
Un discorso a parte merita l’Unione Europea, se non altro per il carattere di novità che l’accompagna. Sarebbe la prima volta, infatti, che un elevato numero di Stati nazionali consolidati decidono liberamente di unirsi in un unico soggetto politico, che è anche unico come modello politico. L’UE, infatti, non è uno Stato, né una Federazione o Confederazione di Stati, e nemmeno un Impero, nel senso tradizionale del termine. Ulrich Beck e Edgar Grande hanno dovuto coniare l’espressione «impero cosmopolita» per descrivere quel che è o quel che dovrebbe essere l’UE. I due studiosi ritengono che questo impero possa definirsi «nuovo» per molti aspetti, come, ad esempio, il fatto di essere “un impero senza imperatore”, che riconosca le differenze nazionali, sia pure nella nuova dimensione cosmopolita, e il cui potere sovrano è ripartito fra diversi soggetti politici (2006: 100). “Con la strisciante costituzione di un impero europeo gli stati nazionali non si dissolvono, ma piuttosto vengono superati […]. Essi continuano ad esistere, ma con la loro integrazione in una più ampia unione sovrana vengono a loro volta trasformati in stati cosmopoliti” (BECK, GRANDE 2006: 97). Resta da vedere se effettivamente questo nuovo soggetto politico decollerà e se davvero, come auspicano Beck e Grande, riuscirà ad imporsi “come forza propulsiva di un cosmopolitismo globale” (2006: 286).
Nel corso degli ultimi due decenni, grazie anche allo sviluppo delle tecnologie informatiche, le borse e altre attività finanziarie si sono diffuse in tutto il mondo favorendo le operazioni degli speculatori, che acquistano o vendono ingenti quantità di titoli o di moneta esclusivamente per trarne un profitto. In tal modo, alcune imprese finanziarie sono diventate così ricche da poter influenzare l’andamento dei mercati, l’equilibrio tra domanda e offerta e le politiche dei diversi paesi. Inoltre, finché non ci sarà un governo sovranazionale, nessuno potrà impedire agli Stati più forti di imporre la propria volontà su quella degli Stati più deboli, com’è il caso degli USA all’interno del WTO (BOBBIO, MATTEUCCI, PASQUINO 2004: 402), né si potrà evitare il rischio che poche immense aziende multinazionali, sbaragliata la concorrenza, instaurino un regime di monopolio e impongano le proprie volontà alle forze politiche dei vari paesi. Intanto, queste stesse aziende sfruttano le opportunità offerte loro dalla delocalizzazione del lavoro, che ha l’effetto di concentrare le ricchezze nelle mani di pochi capitalisti, i quali “si arricchiscono spostando servizi, beni e risorse naturali da dove costano meno a dove sono più cari, e spostando la produzione dei beni da dove è più costosa a dove lo è meno” (THUROW 1997: 181), senza comportare vantaggi per i lavoratori. È inutile chiedersi se vi possa essere giustizia in un siffatto contesto, che è dominato dal fattore economico. “Alla domanda chiave della seconda modernità: com’è possibile la giustizia sociale nell’era globale? Nessuno ha una risposta” (BECK 1999: 183). Insomma, l’accoppiata Globalizzazione/DR esige che, in un libero mercato mondiale, si confrontino e competano ad armi pari paesi come gli Usa e il Bangladesh! Credo che tutti comprendiamo che la cosa non può andare.
Stando così le cose, si comprende bene perché molti guardino alla g. con preoccupazione. Essi sanno che non può esserci scambio alla pari fra due paesi che non siano pari. Essi sanno cioè che i mercati, a differenza degli ordinamenti politici, non si lasciano democratizzare e temono un progressivo impoverimento dei più poveri e arricchimento dei più ricchi (MALANDRINO 2001: 280), in un processo che, non potendo procedere all’infinito, rischia di esplodere. Questi timori possono spiegare l’atteggiamento prudente di numerosi studiosi, fra cui G. Thompson, P. Hirst e S. Huntington, i quali ritengono che non siano maturi i tempi della g. e prevedono ancora lunga vita per gli Stati nazionali. Sono pochi i globalisti convinti, come K. Ohmae, i quali, forse con eccessivo ottimismo, danno per scontata la g. e credono imminente il superamento dell’era degli Stati nazionali.
Secondo gli antiglobalisti, il cosmopolitismo è incompatibile con l’esistenza degli attuali Stati-nazione, e ciò trova conferma nel fatto che, negli ultimi decenni, “le disuguaglianze sulla Terra sono enormemente aumentate” a tal punto che il 15% della popolazione mondiale “consuma oltre l’80% delle risorse mondiali” e le 350 persone più ricche “posseggono, da sole, circa il 16% delle risorse del pianeta” (BALDASSARRE 2002: 340). “Oggi, il 5% più ricco della popolazione mondiale ha un reddito pari a 114 volte quello del 5% più povero” (HELD 2005: 73). Come si può vivere fianco a fianco e collaborare in simili condizioni di disparità? In altri termini, com’è possibile attuare un ordinamento politico e giuridico mondiale basato sui principi della democrazia pluralista, di cui avremmo tanto bisogno, in condizioni di così drammatica disuguaglianza? Le difficoltà di dare un seguito politico al processo di g., che è già in corso, sono legate in fondo al fatto che il mondo globale “è un mondo estremamente diseguale” (BALDASSARRE 2002: 337). Questo è l’insuperabile problema della DR.
E allora? E allora rimangono in campo i soliti giochi di geopolitica, ed è con questi che verosimilmente, secondo Parag Khanna, dovremo fare i conti nel prossimo futuro. Secondo lo studioso, il fatto che il mondo è reso più piccolo dalla globalizzazione “preannuncia un’era di competizione più intensa di qualsiasi altra vista in passato” (KHANNA 2009: 27), che vedrà contrapposti i tre più grandi «imperi» del mondo d’oggi, vale a dire gli Usa, l’UE e la Cina, i quali “si contenderanno il diritto dell’ultima parola – sempre che l’altro grande mezzo per disegnare l’ordine mondiale, la guerra, non decida altrimenti” (ivi p. 22).
Qualunque tentativo teso a trovare una soddisfacente soluzione politica alla domanda che viene da un mondo già globalizzato dovrà fare i conti con questa dura realtà. Il fatto è che, in teoria, un governo democratico del mondo dovrebbe presupporre la compartecipazione di tutte le comunità locali in condizioni paritarie, in pratica, invece, oggi la convivenza di regioni sviluppate e povere può avvenire solo in condizioni disuguali. Un Mondo Unito Democratico potrebbe facilmente realizzarsi se ci fosse una condizione paritaria fra le nazioni o ci fosse la volontà di giungere a tanto. Accettare l’idea di un governo democratico del mondo vorrebbe dire accettare che le differenze politiche non debbano più basarsi sulla forza, ma sulla giustizia, il che rappresenterebbe una novità assoluta nella storia dell’uomo, che però trova forti resistenze anche nei paesi con la più consolidata tradizione democratica.
13. Conclusioni
Concludo osservando che la g. costituisce il banco di prova della reale fede democratica dei paesi DR. In altri termini, se questi paesi credono veramente nella democrazia lo dovranno dimostrare accettando un governo democratico del mondo. Se invece continueranno a farsi guidare dal principio di forza, allora la soluzione sarà obbligata: l’eventuale governo del Mondo Unito sarà di tipo autoritario e, verosimilmente, sarà rappresentato dal paese più forte, più precisamente dagli Stati Uniti, i quali “esercitano un dominio incontrastato sovra tutti i fattori determinanti della politica internazionale: controllano il sistema bancario internazionale e le valute pregiate, dominano la finanza e i mercati mondiali, sono i più grandi produttori di merci e allo stesso tempo i maggiori acquirenti delle medesime, posseggono le più sofisticate tecnologie e la più imponente capacità militare, sono signori dello spazio e delle rotte aeronavali, controllano le comunicazioni e la Rete informatica, esercitano una sicura egemonia sul Consiglio di Sicurezza dell’ONU, sul Fondo Monetario Internazionale, sulla Banca Mondiale e sull’Organizzazione Mondiale del Commercio” (BALDASSARRE 2002: 338).
La globalizzazione
15 anni fa
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